La comunicazione tra medici e pazienti non sembra in buona salute. A parte qualche lodevole eccezione, i sanitari sembrano in difficoltà a relazionarsi con i loro pazienti a livello di profondità ed empatia richiesto da un evento esistenziale sconvolgente come una malattia grave. Non a caso, sono sempre più diffusi i corsi per insegnare ai curanti come comunicare, specialmente le cattive notizie. Si tratta tuttavia di una risposta “tecnica” a un problema che ha invece radici culturali.
Se ci si pensa, non è sorprendente che i medici siano in difficoltà a comunicare. Per circa 25 secoli (ossia da Ippocrate agli anni ’70 del ’900), la medicina occidentale è stata paternalistica: il medico-pater decideva per il paziente-puer, senza coinvolgerlo. Non vi era, in quel contesto, alcun obbligo a comunicare e spesso si riteneva che mentire al paziente fosse la cosa migliore da fare. Quando poi nella seconda metà del XX secolo si affermò la dottrina del consenso informato – imposta alla medicina dall’esterno, ossia dai giudici – avvenne in effetti un cambiamento radicale: i curanti cominciarono a mettere a disposizione tutte le informazioni in loro possesso, in quanto obbligati dalla legge, ma ciò non comportò un serio ripensamento del rapporto che doveva instaurarsi tra sanitari e pazienti, perché si desse autentica comunicazione.
Illuminante in questo senso è saggio ormai classico della bioetica, pubblicato nel 1992 su JAMA da Ezekiel e Linda Emanuel: Quattro modelli della relazione medico-paziente. Nel loro paper, i due studiosi statunitensi richiamarono l’attenzione su quattro diversi paradigmi della relazione tra medico e paziente, a loro volta fondati su quattro diversi modi di concepire l’autonomia delle persone.
Il modello paternalistico prevede che il medico proponga al paziente le informazioni e le opzioni terapeutiche che egli ritiene oggettivamente migliori, aspettandosi che il paziente presti senz’altro il suo consenso. In questo approccio, l’autonomia del paziente non è negata come in passato, ma si riduce al concedere un assenso praticamente scontato.
All’opposto, vi è il modello informativo che prevede l’obbligo da parte del medico di fornire al paziente tutte le informazioni rilevanti e di descrivere le diverse opzioni terapeutiche, lasciando al paziente la piena responsabilità di scegliere l’opzione preferita, sulla base dei propri indiscutibili valori. Nel quadro dell’approccio informativo, il professionista sanitario e il paziente sono concepiti come estranei, il cui rapporto deve perciò essere regolato da un contratto: il consenso informato.
Pur essendo oggi dominante, il modello informativo è fondato su presupposti problematici: assume che le persone possiedano valori noti e fissi, mentre l’esperienza mostra che, specialmente in situazioni nuove o debilitanti come una malattia, gli esseri umani possono essere turbati e incerti; inoltre, assume che l’autonomia si eserciti solo garantendo la non interferenza di altri sul soggetto decisore, quando invece succede spesso che proprio grazie al confronto diventa possibile chiarirsi le idee e maturare decisioni sagge.
È per far fronte a tali gravi limiti che sono stati elaborati due ulteriori modelli: interpretativo e deliberativo. Per questi modelli, i sanitari – oltre a fare 10
diagnosi e prognosi – sono chiamati a entrare in una relazione significativa coi pazienti: solo così posso aiutarli a capirsi in un momento di grande sconvolgimento e, se necessario, suggerire loro cosa fare all’interno di un dialogo franco. Il presupposto di tali approcci è che l’autonomia delle persone si realizzi all’interno di relazioni autentiche, non nell’isolamento.
Se dunque era sbagliato un tempo non comunicare nulla, è altrettanto problematico “scaricare” addosso al paziente caterve di informazioni, magari in modo freddo e distaccato: le persone che vivono l’esperienza della malattia non hanno bisogno solo di essere informate, ma anche e soprattutto di essere confermate, sostenute, consigliate – fermo restando il diritto della persona più direttamente interessata di prendere la decisione finale.