La malattia è vissuta come una separazione dallo stato di salute e dalla comunità/famiglia della persona.
Questa è disgregata nella sua identità e il volontario porta condivisione e solidarietà e può essere un tramite col mondo esterno, aiutando il paziente a sentirsi ancora parte della comunità. Il cancro è stato definito da Sontag la malattia che non bussa prima di entrare, perché si presenta in maniera immediata,
senza avvisare, distruggendo le certezze della vita in modo improvviso. La reazione comune è lo shock da
trauma: da un’esistenza ordinaria fatta di certezze, ad una straordinaria, fatta di perdite, pericoli e insidie.
Nell’incontro tra volontario e malato si stabilisce una relazione di aiuto: un volontario può portare un po’ di luce all’altra persona con empatia, capendo il suo mondo soggettivo come se vestisse i suoi panni, senza però dimenticare di non essere l’altro.
Se ci identifichiamo nella persona malata, sentendo la sua angoscia e la sua tristezza, danneggiamo noi stessi e non siamo più in grado di aiutarla. La difficoltà e la bellezza nel realizzare questa relazione sta proprio in questo: un ascolto attivo, una competenza emotiva e una competenza comunicativa. Se possediamo queste tre abilità siamo dei bravi volontari. Esse richiedono dote naturale, esercizio e addestramento. I tempi e i modi sono vari. L’ascolto “attivo” sembra contradditorio, ma “attivo” sta per “io sto ascoltando col cuore e con attenzione in modo assoluto e completo, in quel momento c’è solo lui o lei”.
Non deve esserci giudizio, ma comprensione. E non bisogna cercare di dare risposte. È importante capire come e quando entrare in comunicazione con l’altro.
Competenza comunicativa non significa essere buoni oratori. Esistono due tipi di comunicazione sempre presenti, comunicazione verbale e non verbale che si completano: il tono (30%), la gestualità (60%), il contenuto (10%). È importante prestare attenzione al linguaggio non verbale perché l’ansia del paziente non fa comprendere molte delle cose dette.
La competenza emotiva deriva dall’intelligenza emotiva, da contrappore all’intelligenza cognitiva, che deriva dalle nostre funzioni cerebrali. Dovremmo avere un equilibrio tra le due, razionalizzando e allo stesso tempo mostrando le nostre emozioni, che spesso chiudiamo nel cassetto reprimendole, oppure buttiamo fuori in modo impulsivo.
I comportamenti agevolanti in una relazione di aiuto sono: concentrarsi sull’esserci piuttosto che sul fare delle cose; agevolare l’altro e i suoi vissuti, senza sfuggire alle sue emozioni; ascoltare cercando di sostenere i silenzi; incoraggiare lasciando spazi di speranza; accettare la persona così com’è senza giudicarla e senza dare consigli; agire con rispetto della personalità dell’altro.
I comportamenti da evitare e ostacolanti, invece, sono: usare una comunicazione egocentrica e logorroica ponendosi al centro e usando frasi come “tu sei forte”, “devi reagire”; avere aspettative nell’altra persona, che invece ha bisogno di contenimento materno; sdrammatizzare il problema o cambiare argomento; dare risposte assolute a domande dirette; dare giudizi; avere atteggiamenti inquisitivi e indagatori.
Volontari non ci si improvvisa, non basta un corso iniziale, occorre proseguire la formazione in modo continuativo, con la condivisione e il confronto con gli altri, per chiarire domande e incertezze.
Prendere a cuore gli altri senza dimenticare di prendere anche a cuore anche se stessi.