Copertina articolo Prima la salute

Pamela Pasian, Veronica Redini
Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata (FISPPA)
Università di Padova

Mai come durante l’anno che ci siamo lasciati alle spalle il tema della salute e soprattutto del diritto alla salute è stato al centro dell’attenzione della vita sociale, economica e mediatica. Durante questo periodo, la collaborazione tra l’associazione Volontà di Vivere e il Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata dell’Università di Padova, ha rappresentato l’occasione per indagarne un frangente specifico. Abbiamo infatti condotto una ricerca sulle modalità di accesso alla salute delle donne straniere a Padova e provincia concentrando il nostro interesse sulla malattia oncologica. Il nostro obiettivo era di far emergere i punti di forza e di individuare le eventuali problematiche nell’accesso alla prevenzione e alle cure per ridurre il divario esistente tra la popolazione nativa e quella immigrata.

La nostra indagine si è sviluppata attraverso interviste semi-strutturate alle donne migranti e ad alcuni cosiddetti testimoni privilegiati: medici di medicina generale, psicologi, oncologi. In entrambi i casi si è trattato di tracce d’intervista formulate in modo da lasciare una certa libertà di risposta in merito alla percezione personale e culturale della malattia oncologica e alle modalità e/o problematicità nell’accesso ai servizi sanitari. I limiti imposti dalle normative relative all’emergenza Covid-19 insieme al rispetto della vulnerabilità che sempre si accompagna alla malattia ci hanno portato a optare per colloqui “a distanza” per via telefonica o attraverso piattaforme digitali che hanno permesso un scambio anche visivo. A partire da alcuni nominativi forniti dall’Associazione, dai nostri contatti personali e con il passa-parola delle stesse migranti che colpite dalla ricerca e dall’utilità dei suoi intenti hanno messo a disposizione la loro rete di conoscenze, abbiamo realizzato 20 interviste a donne di diversa nazionalità (1 inglese, 1 ucraina, 1 nicaraguense, 1 croata, 2 romene, 2 marocchine, 12 moldave) residenti a Padova o nei comuni limitrofi. Si tratta di un ventaglio piuttosto variegato di intervistate con un’età compresa tra i 33 i 67 anni impiegate in una varietà di settori lavorativi, ma con una preponderanza di assistenti domiciliari a ore in residenze private e in case di riposo. Comune denominatore di provenienze e vissuti così diversi è, per tutte, l’esperienza della malattia che nelle storie che abbiamo raccolto ha prevalentemente assunto la forma di un cancro al seno. È intorno a questo evento che abbiamo sviluppato le tematiche-guida delle interviste che hanno permesso di farne emergere alcune sfaccettature esistenziali, relazionali e sociali.

La malattia irrompe nell’esistenza delle donne intervistate sotto forma di sintomi evidenti e la reazione soggettiva è connessa al background culturale oltre che naturalmente a caratteristiche individuali. Nonostante ciò l’esperienza del cancro è restituita da tutte come un evento dirompente che marca un prima e un dopo nella biografia di ciascuna e che segna sia da un punto di vista fisico, sia emotivo e psicologico. Da questo percorso il corpo esce trasformato, provato dalle terapie e modificato dagli interventi chirurgici. Di fronte a tali cambiamenti alcune intervistate riportano la sofferenza per quella che ritengono una perdita di integrità corporea e quindi di auto-stima, laddove altre testimoniano la graduale accettazione di ciò che è ritenuto necessario al superamento della malattia e a una nuova affermazione di sé. In generale si può dire che il corpo, nella sua dimensione visibile e non visibile, viene rappresentato come il principale campo in cui si svolge l’azione contro la malattia. Non è infatti solo l’aspetto estetico a cambiare ma anche i processi ormonali, che comportano scelte faticose come quella di una intervistata che, a causa di cicli mestruali straordinariamente abbondanti, ha optato per un’isterectomia pur di non doversi sottoporre a continue trasfusioni di sangue o di quante si trovano a dover far fronte alla problematica sintomatologia di una menopausa indotta. C’è infine la spossatezza fisica, l’inedita e pervasiva stanchezza che succede alle terapie e che necessita un ripensamento radicale dei ritmi di vita, di lavoro e delle relazioni con gli altri dentro e fuori casa.

Nelle pur diverse storie personali la malattia viene quindi rappresentata come uno snodo esistenziale che disorienta e che, allo stesso tempo, indirizza verso un cambiamento perché deve essere affrontata facendo ricorso a tutte le risorse materiali e immateriali che si hanno a disposizione. «Questa malattia non vuole la paura, vuole la forza» riferisce un’intervistata, anche se affrontare coraggiosamente la patologia e le terapie senza poter dare il giusto spazio all’elaborazione delle emozioni, presenta il rischio di avere delle ricadute nel lungo termine e trasformarsi, come nel suo caso, in depressione. In altri casi, l’essere riuscite ad affrontare questo percorso, screditando l’idea dell’ineluttabilità di un esito fatale, ha rappresentato invece un’occasione di rivalsa come spiega una intervistata quando racconta: «[Alle persone che dicono] “Mah, poveretta, questa qua ha un tumore, chissà quanto vivrà!”, ecco, io ho detto no. E allora mi truccavo, mi mettevo dei vestiti bellissimi con i fiori, camminavo a testa alta».

Queste dinamiche probabilmente accomunano la condizione delle donne migranti e non, anche se abbiamo potuto registrare come l’essere straniere presenti delle specificità nel modo in cui è possibile affrontare la malattia. Le migranti non rilevano una difficoltà o disparità di accesso ai servizi che reputano tempestivi e caratterizzati da una non trascurabile attenzione al versante “umano” della relazione medico/personale socio-sanitario/paziente. Va detto del resto che chi intraprende un percorso di cura ha generalmente acquisito nel corso degli anni trascorsi in Italia una certa dimestichezza con il sistema sanitario, il funzionamento delle procedure e le modalità di accesso ai servizi. Quando però l’intervento biomedico chiama in causa le risorse relazionali, economiche e di solidarietà delle pazienti sembrano evidenziarsi delle diseguaglianze tra le donne migranti e quelle native. Tanto nelle testimonianze delle donne migranti quanto in quelle dei medici, la narrazione della malattia si interseca allora con quella dell’esperienza migratoria, dell’irregolarità, della subordinazione lavorativa ed economica. Come sottolinea infatti una oncologa intervistata, le donne straniere possono trovarsi nella situazione di «gestire in prima persona la loro malattia, anche a casa, anche continuando a lavorare perché non possono permettersi di perdere il lavoro […] sono molto sole nel gestirla perché poi magari gli ammortizzatori sociali o altri tipi di paracadute non sanno bene come accedervi o proprio non ci sono».

Se quindi i servizi appaiono capillarmente diffusi e accessibili, le differenze tra pazienti migranti e non si situano, potremmo dire, a monte e a valle dei servizi stessi. Le condizioni di vita e lo status giuridico condizionano cioè, da un lato, l’immediatezza dei rapporti con le strutture sanitarie come nel caso ad esempio delle lavoratrici in condizione irregolare che, prive di un proprio medico di famiglia, fanno ricorso a quello della persona assistita per una prima diagnosi. L’irregolarità e la precarietà lavorativa incidono inoltre sulla prevenzione che appare condizionata anche dalle abitudini incorporate nel paese di origine. Non a caso, le donne provenienti da contesti in cui il sistema sanitario pubblico è debole e incapace di farsi carico della cura dei cittadini riferiscono di aver appreso l’importanza della prevenzione in Italia e solamente in seguito alla malattia. Dall’altro lato, la condizione migratoria e la debolezza della rete sociale espongono le donne a una particolare vulnerabilità durante e dopo la fase della terapia. Una intervistata, addetta alle pulizie in un albergo, racconta per esempio di non aver informato del proprio stato di salute colleghi e datore di lavoro continuando a lavorare durante la chemioterapia nella speranza, poi sfumata, di poter essere impiegata a tempo indeterminato. Nel caso invece di un’altra intervistata impiegata come assistente familiare, la malattia ha causato l’interruzione del rapporto lavorativo e l’innescarsi di una scala discendente che ha portato la donna a vivere in una condizione di marginalità e ad avere precluso l’accesso ai servizi sanitari e agli accertamenti di controllo a causa del permesso di soggiorno scaduto. Le problematicità maggiori nei rapporti coi servizi si situano quindi nel punto di “uscita” potremmo dire dall’area di pertinenza strettamente biomedica e più propriamente in quella sociale. Molte donne riferiscono, ad esempio, di non aver ricevuto orientamento in merito ai servizi di supporto alle terapie (trattamenti, trasporti, etc.) e alle modalità di accesso all’indennità di accompagnamento o di invalidità così come a una rete – laica, associativa, di volontariato – che potesse supportarle nel rapporto con la burocrazia. In generale districarsi nel labirinto degli uffici e della burocrazia risulta particolarmente difficoltoso per le donne intervistate perché il capitale culturale di ciascuna e la rete di supporto svolgono un ruolo-chiave per comprenderne e decifrarne il funzionamento.

In sintesi possiamo dire che l’assenza o la debolezza delle reti sociali di supporto gioca un ruolo fondamentale nel rapporto coi servizi e nel processo terapeutico. È l’implementazione di questo tipo di servizi che si collocano a un livello intermedio tra i diversi piani dell’esperienza della malattia – quella personale e quella sociale, quella organica ed emotiva, quella fisica e piscologica – che appare auspicabile per allineare la condizione delle donne native e migranti.